Con gli hotspot l’Italia accetta la detenzione su larga scala e la violazione dei diritti umani
La scorsa settimana si è tenuto un incontro tra le organizzazioni del Tavolo Asilo e i rappresentanti della Commissione Europea, del Ministero dell’Interno e dell’UNHCR sul tema degli hotspot e della gestione degli arrivi in Italia, sulla base degli accordi recentemente siglati a livello europeo dai governi dell’UE. Al centro dell’incontro la gestione degli arrivi, con particolare riferimento all’attivazione delle procedure nei cosiddetti hotspot. Dall’esposizione dei rappresentanti della Commissione e del Ministero vengono confermate tutte le nostre preoccupazioni.
Gli hot spot sono luoghi di detenzione dove le persone verranno selezionate sulla base della nazionalità e della disponibilità a farsi fotosegnalare. L’Italia ha accettato la reintroduzione della detenzione su larga scala e il ricorso a metodi poco o per niente rispettosi dei diritti delle persone, in cambio della riallocazione di qualche migliaio di eritrei e di un po’ di soldi. L’operazione formalmente ha avuto inizio lo scorso 17 settembre anche se le procedure sono tutte in fieri e in fase sperimentale. Siamo nella fase cosiddetta ‘pilota’ dell’approccio hotspot eppure in queste ore nigeriani, gambiani e maliani arrivati a Lampedusa hanno già ricevuto un provvedimento di espulsione. Solo ieri sull’isola è scoppiata una rivolta contro i rischi di rimpatrio forzato, contro il mancato accesso ala procedura di asilo.
Se di settimana ‘pilota’ si tratta che l’Europa cambi subito strategia!
L’approccio hot spot non può essere applicato a Lampedusa.
Non può perché non dobbiamo correre il rischio di imprigionare le persone limitandone la libertà di movimento. Secondo quanto comunicato dalla Comunità Europea non potranno uscire dagli hotspot le persone che non si lasceranno identificare. Un approccio quindi che lega indissolubilmente il bisogno di protezione alla volontà di farsi identificare, chiedendo ai migranti di fidarsi delle procedure e dei tempi di trasferimento nonostante ad oggi ci siano persone in attesa da più di un anno.
Lampedusa deve essere lasciata alla sua naturale cultura dell’accoglienza, permettendole di continuare ad essere un centro di primo soccorso ed accoglienza, un centro di transito nel quale rifocillare e far riposare le persone appena salvate in mare.
L’accesso alla procedura, già adesso non sempre tutelata e lineare, non può essere costretta nei tempi dettati dalle paure della Comunità Europea. Un’operazione condivisa, una partecipazione di responsabilità verso un sistema europeo comune di asilo che accogliamo con favore basato però su una discriminazione: possono essere ricollocate solo le nazionalità con un tasso medio europeo di riconoscimento della protezione del 75%. Un vizio razzista che mette in discussione l’efficacia dell’operazione nonché la natura soggettiva del diritto di asilo.
Infine, non possiamo non ribadire che oggi la priorità è aprire canali di ingresso umanitari per evitare nuovi morti di frontiera, e insieme adottare con urgenza misure che garantiscano un’accoglienza dignitosa.