da l’Huffingtonpost del 29/08/2017 di Filippo Miraglia, Vicepresidente Arci Nazionale
Il summit a Parigi (doveva tenersi in Italia ma, evidentemente, gli interessi economici in Africa continuano a sollevare problemi di leadership, che si risolvono sempre con l’Italia perdente) non ha nulla di nuovo e nulla di buono.
Le conclusioni, anticipate in questo articolo, servono a ribadire l’unico teorema sul quale i governi dei principali paesi della Ue sono in grado di mettersi d’accordo: per aiutarli (si dice “aiutiamoli”, ma si legge “fermiamoli!”) fermiamoli a casa loro o a casa degli altri. L’obiettivo resta esternalizzare i controlli e le frontiere, respingere, bloccare. In nome di quest’obiettivo si sacrificano vite umane e principi democratici.
E allora, se l’esperienza turca, di cui si vantano la Merkel e gli altri leader europei, insegna che sono i soldi a consentire il raggiungimento dell’obiettivo, la soluzione sembra essere, semplicemente, mettere in campo più soldi.
Abbiamo dato 6 miliardi a Erdogan, che tanto si sta battendo per le democrazie europee (certo cancellando i diritti in Turchia e sterminando i curdi, ma questi sono effetti collaterali) e adesso facciamo lo stesso con Al Sarraj, nell’inferno libico. Il risultato è quello di bloccarli, ovviamente per il loro bene. Le donne continueranno ad essere stuprate, migliaia di persone continueranno ad essere torturate e ricattate. Anche questi, effetti collaterali accettabili.
Ci rassicura però che i diritti umani in Libia siano l’assillo del ministro Minniti. Nel frattempo, però, le persone sono saldamente nelle mani delle bande che controllano il territorio libico e i tanti centri di detenzione e tortura. Infatti, oltre ad invitare Al Sarraj ai tavoli con i paesi europei, diamo un riconoscimento internazionale anche alle milizie libiche, a partire da quelle che controllano la costa all’altezza di Al Zawiya, che beneficiano sicuramente di soldi europei, largamente elargiti per compensare le perdite del business delle partenze.
Abbiamo fermato i siriani, gli iracheni e gli afgani prima che potessero arrivare in Europa e chiuso la rotta balcanica. Così i profughi di quei paesi non vengono più a disturbare le nostre campagne elettorali.
Abbiamo bloccato, con un accordo con un altro regime democratico al quale forniamo strumenti, formazione e assistenza tecnica, quello di Omar Al Bashir, pluriricercato per crimini contro l’umanità per le stragi in Darfur, gli eritrei in fuga da un presidente noto per essere da più di venti anni un “difensore” dei diritti umani, Isaias Afewerki.
In compenso però chiediamo a Unhcr e Oim di aprire campi per profughi in Libia, da dove far arrivare i “veri” rifugiati, quelli già selezionati e riconosciuti.
Peccato che questa operazione, cioè ridistribuire rifugiati già riconosciuti da Unhcr, trasferendoli in Ue con il reinsediamento (lo stesso possiamo dire del ricollocamento da Italia, Grecia, Ungheria), a oggi coinvolga appena poche migliaia di persone. Cifre ridicole se paragonate alla tragedia della guerra, della persecuzione e dei disastri ambientali che riguardano tante popolazioni del mondo in questo momento, decine di milioni di persone (più di 65 milioni nel 2016).
In attesa che l’Ue e i suoi governi (compreso quello italiano che ha accolto poche centinaia di persone) decidano di modificare il loro comportamento in materia di reinsediamento e ricollocamento, chiudiamo ogni canale d’accesso, anche quello ad alto rischio del Mediterraneo centrale, in modo da ridurre a zero i flussi (aumentando i morti) e quindi scaricare sui paesi poveri e governati da dittatori più o meno conosciuti l’onere dell’accoglienza e del respingimento per conto nostro.
Una strategia rispetto alla quale Gentiloni e Minniti, con Macron, Merkel e Rajoy, in accordo con Federica Mogherini, ricercano un accordo per poter poi chiedere l’assenso degli altri leader europei.
Così come si raggiungerà un accordo nel respingere ogni tentativo di ripartizione equo – così i capi di governo “democratici” potranno dire che la colpa è degli altri – e nel criminalizzare le Ong, un altro dei punti forti di questo summit.
Insomma, il solito capolavoro dei leader europei che guardano alle prossime elezioni e al consenso interno, più che a risolvere problemi e a tutelare i diritti umani, sacrificabili anche se sempre citati nei documenti come imprescindibili.