Il baratto degli esseri umani, formalizzato dall’Accordo UE – Turchia sui migranti, ha avuto formalmente inizio.
La Turchia è di fatto considerata un paese terzo sicuro. Le prime duecento persone trasferite dalle isole greche di Lesvos e Chios sono perlopiù del Pakistan e del Bangladesh: nazionalità per le quali il ministro dell’Interno turco Ala si è affrettato a dire che è previsto il rimpatrio forzato nei paesi di provenienza.
Diritto d’asilo? Cos’è? L’Europa ha affidato a un paese che da anni si macchia del crimine di persecuzione e violenza nei confronti del popolo curdo, alla Turchia che mette in galera chiunque osi denunciare le malefatte del governo, alla Turchia dei campi di accoglienza concepiti come campi di deportazione – pensiamo ad esempio a quello di Askale -, alla Turchia che non ha adottato la convenzione di Ginevra del 1951, a un paese con queste caratteristiche, l’UE ha affidato il destino di migliaia di migranti in fuga da persecuzioni per motivi religiosi, sociali, politici e ambientali.
Alla discriminazione originaria dell’Agenda europea sull’immigrazione secondo la quale possono essere ricollocate esclusivamente persone con una nazionalità che registra un tasso medio di riconoscimento dello status di rifugiato pari al 75% – siriani, eritrei ed iracheni – si aggiunge una discriminazione sul comportamento adottato dal siriano in fuga. Se per salvarti la vita l’hai messa a rischio su un gommone verso le coste greche, violando però le leggi di ingresso, allora sei un siriano di serie B il cui destino sarà il rientro in Turchia. Se invece sei un siriano attualmente presente in Turchia senza aver ancora tentato di raggiungere l’UE, allora sei un siriano di seria A che verrà accolto – grazie a un siriano di serie B – in un paese dell’UE. Da non credere se non fosse scritto nero su bianco.
Una vergogna internazionale. Una simile accordo sarebbe illegittimo e politicamente inaccettabile anche se stipulato con un paese sicuro e democratico, figuriamoci con un paese che non è né sicuro né democratico!
Dichiarazione di Filippo Miraglia, vicepresidente nazionale Arci
Roma, 4 aprile 2016